1950 – 1970. Il culto delle Anime del Purgatorio al cimitero delle Fontanelle in alcuni articoli della stampa napoletana – Seconda Parte

Nel suo racconto “Il Purgatorio”, Domenico Rea non entra nel merito delle questioni affrontate dagli articoli del “Giornale d’Italia e della “Croce”, ma riconosce e sublima il ruolo svolto dalla Chiesa povera durante i bombardamenti a Nofi, la località in gran parte identificabile in Nocera Inferiore, luogo di nascita dello scrittore. Il racconto ha diverse sfaccettature. La prima descrive  l’atmosfera di Nofi durante la guerra con i bombardamenti lontani: “si vedevano né più né meno come in un cinema”; la seconda descrive la cittadina sottoposta ai bombardamenti, la fuga delle istituzioni dalle loro responsabilità e il trauma della popolazione; la terza è un finale denso, asciutto , essenziale: il prete povero inciampa, con il sacramento in mano, in un buco del giardino che porta “nel  ventre della terra, che da allora fu chiamato Purgatorio”. Il prete suona le campane e la gente corre a rifugiarsi in questo Purgatorio. Il punto chiave del racconto è la Chiesa povera “ Anche i preti eranno scomparsi”. Era rimasto “Solo don Giuseppe, un prete a sé, un escluso, un punito, un confinato”.

Come interpretare questo scritto di Rea?  “Cristo si è fermato a Eboli” era già stato pubblicato ed aveva avuto un’eco vastissima, ma il folclore progressivo non era ancora venuto alla ribalta. Ernesto De Martino ancora non aveva pubblicato i suoi scritti sulla religiosità popolare. Una chiave di lettura può essere data collegando il racconto al film “Viaggio in Italia” di Roberto Rossellini di alcuni anni più tardi, che ha alcune  scene girate dal regista proprio nel cimitero delle Fontanelle. Quelli che scendono nelle grotte di Nofi con il prete e quelli che vanno al cimitero delle Fontanelle, sono come quelli che nella famosa scena finale del film partecipano alla processione dell’Addolorata durante la quale avviene il miracolo: Innocenti. “Come possono credere a queste cose, sembrano tanti bambini”, dice il protagonista Georges Sanders rivolto alla moglie Ingrid Bergman, prima che l’atmosfera scatenata tra la folla dal miracolo coinvolga e trascini sia lui che la moglie verso una ricomposizione affettiva e familiare impensabile qualche istante prima.

“Purgatorio” anticipa quelli che saranno poi i temi del folclore progressivo e si colloca all’interno della cristologia popolare napoletana. Una delle tante creazioni/invenzioni della cultura partenopea: “… il napoletano non conosce Dio, e nemmeno ha bisogno di lui, e mai, nelle sue preghiere, si rivolge a lui, ma sempre e soltanto a Gesù, alla Madonna e alla famiglia dei santi. Non si rivolge a Dio perché Dio non è antromorfizzabile….e’ un fiato. Un’idea. Non si è mai fatto vedere e non si vedrà mai…mentre Gesù e la sua Sacra famiglia sono discesi in terra e hanno visto da vicino le necessità e i bisogni delle creature” [1]. Anche tra i santi la scelta è netta. Rea così descrive piazza San Domenico Maggiore: “Al centro, come un totem, si leva il secentesco obelisco eretto a San Domenico, un santo certamente familiare a Napoli a un’èlite intellettuale ma sconosciuto alla plebe, che a lui preferì sempre il più domestico San Gennaro, così plateale nei suoi miracoli e nelle sue manifestazioni”. E prosegue mettendo tra parentesi, come di un evento misterioso: “sembra che nell’attiguo convento San Tommaso abbia terminato la sua Summa teologica[2].

In “Le due Napoli” Rea va oltre, egli ritiene che le uniche armi dei poveri per vincere la miseria siano gli espedienti e i sotterfugi e vede nel “contrabbando un momento storico importantissimo come aspirazione al lavoro, a costruirsi una casa, a fondare una famiglia civile[3].

La cristologia popolare se coglie certamente un modo di essere di alcuni strati della popolazione si presta anche a coprire quei fenomeni di religione a proprio uso e consumo o, con terminologia postmoderna, di religione usa e getta che affliggono la realtà napoletana. Ma, soprattutto non tiene conto del fatto che un tema come l’antropomorfismo, che in modo controverso caratterizza in tutto il mondo la religione cattolica non solo non ha impedito, ma ha contribuito  a chè una specificità della storia culturale napoletana fosse quella di essere stata terra di grande filosofia  e  di grande musica, discipline per definizione astratte e basate sulle idee.

Sono dunque molti gli aspetti del difficile e complicato tema della religiosità e del devozionismo partenopeo, che ancora aspettano di essere adeguatamente indagati. Tempo fa ho incontrato Romeo De Maio cui ho chiesto come mai non avesse proseguito i suoi studi sulla società e la vita religiosa a Napoli. Lo studioso mi ha risposto, con sorriso tra l’ironico e il misterioso, come solo le persone molto anziane sanno fare, che la materia è ancora troppo ardua, consigliandomi la lettura del suo saggio “La parte di Napoli che muore – religione etica e religione quieta[4]” che è di estremo interesse per la conoscenza della religiosità napoletana nel secondo Novecento.

[1] R. Guarini , La sua musa creaturale, in  Rea, Opere, cit., p.XXXII.

 [2] D. Rea, Pagine su Napoli, Azienda Autonoma di soggiorno cura e turismo, Napoli 1995, p. 65.

[3] Rea, Opere, cit., p.1339.

[4]  R. Di Maio, La parte di Napoli che muore, religione etica e religione quieta, Estratto da” Cronache napoletane”, Napoli Ottobre 2002.

Purgatorio

di Domenico Rea

Il Tempo /13 novembre /1950

Nell’ultima guerra, a N+++, come in centinaia di paesi della Campania vennero a rifugiarsi migliaia di napoletani e parenti, congiunti e amici di nostri contadini delle altre città d’Italia più esposte ai bombardamenti. N*** nel giro di un anno, moltiplicò per due  e per tre i suoi trentamila  abitanti e si trasformò in una allegra città di villeggiatura. La gente, costretta all’ozio, passeggiava, visitava i colli, si spingeva fino al mare di Vietri, organizzava feste e trattenimenti. Si videro coppie d’innamorati, alti alti, vestiti alla moda, passeggiare abbracciati per le pubbliche strade, accarezzarsi e sbaciucchiarsi senza che nessuno osasse levare un dito: perché quelli erano signori dai paesi civili dove si usa far pubblicamente queste cose. Anzi il loro esempio fece scuola e al vespro N*** si trasformò in un paese vivacissimo di baldi giovani e di fanciulle settentrionali e cittadine dal corpo esile e dalla bocca immensa truccata. L’ufficio postale prese un aspetto di locale internazionale, i caffè spinsero i tavolini fin nelle strade e, alla sera, si aspettava, chiacchierando e giocando, il solito bombardamento su Napoli.

Appena la sirena fischiava, si saliva in terrazza  e si guardavano i grappoli di razzi sospesi nel cielo lontanissimo e curvo che non si sapeva se era mare o cielo. L’allarme era una distrazione e un’eccitazione singolare e quando una sera passava senza “nulla di fatto” ci si addormentava vestiti, per essere pronti a rifugiarsi, delusi e increduli. Le ragazze e i ragazzi desideravano di essere una volta tanto protagonisti di un bombardamento, per la facilità con cui si susseguivano su Napoli senza che alcun sostanziale mutamento si verificasse l’indomani nella vita di N***. Da N*** i bombardamenti su Napoli si vedevano né più né meno come in un cinema, in cui lo spettatore assiste alle più spaventose sciagure mentre succhia una caramella. Il cuore voleva vendicarsi di anni e anni di noia ; e anche le persone più serie, più impegnate nel desiderare la pace, non furono mai costernate.

 I commercianti, i fornai, gli albergatori i cocchieri cominciarono a vivere la loro grande stagione e nessuno credeva nella propria morte personale; perché N***, dopo tre anni, non contava un morto o una tegola volata via.

 Ma all’improvviso, dopo le feste del luglio 1943 come un rapido cerchio che si restringa al suo centro a vista d’occhio, intorno a N*** cominciò a vedersi una barriera di fuoco. Da una sera all’altra il paese fu come abbandonato. Chi in fretta e furia, rifece le valigie per ritornate in alta Italia, chi per perdersi in qualche campagna. Si vedevano portoni sbarrati, altri lasciati aperti. Mezzogiorno, per solitudine e silenzio, sembrava mezzanotte. Dal quartiere fuggirono i soldati; dai  carceri i carcerati; dagli ospedali i malati che potevano abbandonare il letto, mentre gli altri gridavano e imploravano di essere trasportati fuori. Ai commercianti successero i primi contrabbandieri, che comparivano negli angoli delle strade: aprivano il sacco, vendevano e scomparivano. E la gente cominciò a impazzire dentro le mura della città.

Per qualche ora, al mattino presto, quando le speranze sono ancora attive nel petto dell’uomo, si verificava un po’ di traffico. Si scappava fuori dalle cantine-tane per un po’ di farina, per un pezzo di carne. Appena moriva un cavallo, la gente se lo trascinava nelle cantine e tagliavano fette dalle polpe delle cosce. Poi, al primo rombo o al primo colpo d’artiglieria (si era capitati tra due fuochi), via, dentro i palazzi chiusi a doppio giro di chiave, quasi le bombe dovessero entrare dal portone e il doppio giro di chiave rassicurasse gli animi. “Il portone è chiuso a chiave non c’è pericolo”.

Ma il cerchio si stringeva e le persone nelle cantine-tane, con la testa curva sotto i tetti umidi, un corpo vicino ad un altro, rischiarati dalla fiamma di una superstite candela, avevano i volti uguali perché comune era il dolore. Era un terrore diverso: il naso storto di uno sembrava più storto, le orecchie piccole di un altro sembravano avvampare e dilatarsi, i baffi di un altro tremavano anche senza vento sulla pelle gialla.

Una notte gli aerei vennero proprio su N***. Non c’era niente a N***, oltre le case, le campagne piene di cavoli e i campanili delle chiese. Pure gli aerei vennero e si fermarono, quasi che, come le automobili, potessero fermarsi e mantenere acceso il motore. Questa fu l’impressione. Gettarono alcuni quintali di bombe, che caddero nella profondissima anima di ciascuna persona, e per caso, su un palazzo popolare (dietro la ferrovia) capace di sette-ottocento inquilini. Nella stessa notte si sparse la voce: “Stanno morendo cinquecento persone nelle cantine di dietro la ferrovia” Erano nostri concittadini. Li dovevamo conoscere per forza. Qualcuno andò a brancolare con qualche fiaccola su i sepolti vivi e a raccogliere gli urli della loro agonia in tutta sanità e bestialità di corpo.

Ma i più, i quasi tutti, calarono la testa e si limitarono a dire uno sfacciato “requiem” in coro, mentre quelli dovevano ancora avere il cervello, pieno di esaltate e sempre più violente speranze, decisi a sollevare a colpi di testa, di petto  e di pancia, la montagna cadutagli addosso. Uno, un facchino, Barraccone, fortissimo, riuscì a far scoppiare le pietre che lo opprimevano e, uscito fuori, rivedendo il pericolo corso con l’accumulazione fantastica della memoria, si mise a gridare – come si grida quando il pericolo è passato – per le strade del paese. Ma la voce se ne volava sopra i tetti, non gli ricadeva nemmeno nell’anima: una voce perduta.

Andò al corpo di guardia e una superstite guardia fu seccata di essere colta in flagrante nel punto dell’onore, che non aveva.

Baraccone gli disse: “Vieni è tuo dovere aiutarmi. Bisogna tirarne cinquecento, tutti vivi”. La guardia rispose: “Ah davvero, mamma mia, che disgrazia. Vuoi le torce? Prendine quante ne vuoi”. “ Vieni o ti scanno” ripetè baraccone alla guardia, con una faccia di bestia esaltata. La guardia fece cenno di aspettare e scappò via per una seconda uscita. Dopo quella notte, il facchino non volle più salutare un essere umano e tuttora vive a N*** come un eremita di se stesso.

Anche i preti erano scomparsi. Solo don Giuseppe, un prete a sé, un escluso, un punito, un confinato a reggere la Monachelle, una chiesetta fuori mano, continuava ad aprire la Monachella e a dir messa. La mattina della scoperta, per una sopravvenuta incursione, fu costretto a scappare col Santissimo Sacramento nel rifugio del giardinetto, quando un piede gli sprofondò nel terreno. Con mezza gamba nel buco, abbracciato il Santissimo restò in attesa. Rifattasi la calma, ritornò in chiesa, rinchiuse il Santissimo nel tabernacolo e ritornò sul posto dello sprofondamento.

C’era un buco simile a quello che si può praticare su un uovo di cioccolato. Non era terra; era una scorza di creta; e dentro un vuoto buio profondo e largo quanto più il badile frantumava la scorza. Un buio contorto, con tracce chiare al contatto della luce. Don Peppe ritornò in chiesa, si munì di una fune, di una torcia e, legatosi, si calò nell’abisso. Dopo un’ora risaliva con la faccia stravolta e andava direttamente a suonare la campana a festa. La notizia della scoperta si sparse come un lampo per l’intero paese, e per i paesi vicini, giunse fino a Cava, fino ai paesi dei monti di Salerno. Più la diffusione della notizia che la scoperta del buco ebbe del miracoloso. Era un buco capace di contenere 50 mila persone e scendeva nella terra fino a 17 metri di profondità. Si trattava di una tufara sfruttata e abbandonata. Era scavata a volte, pareti bianchissime, umidissime. Aveva la forma di un incubo, ma di un incubo reale, solido. Le bombe vi tambureggiavano sopra:”tam! Tam!”, ma la scorza era protetta da una molle terra, per metri, e le bombe vi si insabbiavano.

Due ore dopo vi arrivarono le prime truppe di gente. S’insabbiavano come le formiche con le provviste sulle spalle. File di esseri umani, a passo svelto, dal viale del giardino, scendevano nel ventre della terra, che fu chiamato Purgatorio.

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