Il destino purgatoriale di Napoli in alcuni articoli del Sole24Ore della domenica

Estate 2014. Il destino purgatoriale di Napoli in alcuni articoli del Sole24Ore della domenica
L’articolo di Roberto Napoletano su Maurizio Marinella “Partire da Napoli per restare a Napoli” offre una bella rappresentazione della città che lavora e produce, lontana dagli stereotipi. “Napoli, la città italiana più martoriata dagli stereotipi” scrive infatti Luigi Paini nel suo “Inceneriti sotto il Vesuvio” della Domenica del Sole del 6 luglio scorso.
Eppure, sia nell’articolo di Napoletano che in quello di Renato Palazzi, “Il ciclopico pezzentello”, che affianca lo scritto di Luigi Paini, appaiono poi inesorabili gli stereotipi.
Palizzi recensisce uno spettacolo teatrale di Mimmo Borrelli andato in scena nella chiesa delle anime del Purgatorio a Napoli. Non entro nel merito sia dell’opera, che dell’intera stagione teatrale organizzata dall’Opera Pia nel complesso di Purgatorio ad Arco. Ritengo molto positivo che anche a Napoli ci si muova nella direzione di una gestione innovativa dei beni culturali che sia capace di vivere, soprattutto se privati, anche autonomamente, senza attingere solo al denaro pubblico. Appare invece singolare che l’autore, nel descrivere il luogo in cui la rappresentazione è stata effettuata, la chiesa del Purgatorio ad Arco, parli di “culto pagano dei defunti” oggetto di “un’incessante devozione popolare”. Sul culto delle anime del Purgatorio a Napoli vi è una letteratura sterminata e le opinioni sulla sua natura pagana o cattolica, anche nella chiesa, si confrontano, ma dire che c’è un’incessante devozione non corrisponde alla realtà ed è una classica “invenzione della tradizione”. Il culto, infatti, finì nel clima di attuazione del Concilio Vaticano II, che portò al superamento del devozionismo tridentino. Ma l’invenzione serve all’autore per concludere che il luogo “…è una metafora di Napoli stessa, che è Purgatorio dei viventi, perennemente in bilico tra euforia e rassegnazione”. Lo stereotipo vuole che la devozione a Napoli sia magica e pagana, comunque superstiziosa e, soprattutto, espressione dell’incontro dei napoletani con un destino ineluttabile. È quello che Giuseppe Galasso ha individuato come uno dei problemi della napoletanità: una rappresentazione della religiosità più arretrata di quella che realmente è. Perché poi di quest’arretratezza si facciano portatori innanzitutto gli intellettuali napoletani, e in particolare i giornalisti, è ancora da studiare.
Ma anche anche l’articolo di Napoletano subisce il fascino implacabile di questo stereotipo, quando parla di Napoli “una città senza pace e senza lavoro”. Un’affermazione dal sapore biblico, di un destino contro cui è velleitario lottare. Sembra che anche Napoletano evochi il destino purgatoriale di Napoli. Quel ciclo dei “vinti” trasferito dalle falde dell’Etna all’ombra del Vesuvio, che attanaglia la cultura meridionale e abbaglia la politica portandola sulla strada della perenne emergenza e dell’immobilismo. Un’affermazione che contraddice il significato dell’articolo “Partire da Napoli per tornare a Napoli”, che è proprio l’aver indicato una grande tradizione di lavoro artigianale che esiste da secoli ed è capace di innovare e di competere nel mondo globalizzato. Una tradizione basata sulla qualità come marchio di un lavoro che si afferma nella moda come nell’alimentare, nella musica, ma anche nell’armamento, nel turismo e nella cultura. Mesi addietro passeggiavo con un avvocato milanese per il Vomero. Eravamo fermi all’incrocio tra via Alessandro Scarlatti e via Luca Giordano, un luogo brulicante di vita, ma senza i tratti della napoletanità, quando l’avvocato a bruciapelo mi ha chiesto: “ma questa gente da dove trae il suo reddito?”. La realtà di una Napoli che lavora e che produce è una realtà negata. Per oltre cinque secoli Napoli ha avuto una crescita demografica eccezionale e questa crescita non ha mai avuto una spiegazione. Nel seicento e nel settecento gli illuministi hanno sostenuto che la gente veniva a Napoli per sfuggire alle angherie feudali; ma ciò non spiega la crescita dell’Ottocento e del Novecento e, inoltre, da decenni la storiografia sulla feudalità meridionale ha abbandonato il cliché delle angherie di un baronaggio assenteista e prepotente. La verità è che la gente affluiva a Napoli perché a Napoli c’era lavoro.
È nell’esperienza concreta della mia generazione che, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Napoli aveva sostanzialmente raggiunto la piena occupazione. Alla crisi e ai cambiamenti che iniziarono negli anni Settanta, e che nel corso dei decenni successivi hanno ridefinito rapporti e gerarchie tra i territori, Napoli ha risposto con l’immobilismo, la richiesta dell’assistenza innanzitutto, ma non solo, per i disoccupati organizzati, la difesa ad oltranza dell’indifendibile. Ancora una volta non ha saputo innovare la sua identità partendo dal suo grande patrimonio lavorativo.
E oggi la situazione a Napoli è certamente difficile, molto difficile. Come uscirne? L’articolo di Napoletano indica la strada: il lavoro, la sua qualità. Per sapere come percorrerla non c’è bisogno di andare a Torino, che nel corso di centocinquanta anni ha cambiato tre volte la sua identità, basta andare a Salerno.
Non un destino purgatoriale quindi per Napoli, ma scelte sbagliate della sua classe dirigente da evidenziare ai giovani, affinché essi possano cimentarsi con successo con i grandi cambiamenti a cui quest’epoca li chiama.

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